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Di nuovo a Santiago

Ultimo Aggiornamento: 28/05/2014 10:27
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Sesso: Maschile
28/05/2014 10:27
 
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Dopo lunga osservazione, capisco come si prende un taxi a Santiago: si fa un cenno ai motociclisti che sfrecciano con un casco di riserva appeso al manubrio. La moto si ferma, tu indossi ‘sto casco che è più da fantino che da motociclista, monti attenta a non scottarti col tubo di scappamento e via. Dopo i coco-taxi, i bici-taxi, gli asino-taxi, a Santiago tocca ai moto-taxi. Perché la città è piena di salite e discese e senza un motore non si va lontano.

Gli stranieri a Cuba si dividono tra quelli innamorati del cosiddetto Oriente (faccio una certa fatica, ad abituarmi a questo nome in mezzo ai Caraibi) e quelli che invece preferiscono L’Avana. Io faccio parte della prima categoria, ormai l’ho capito. L’importante è che non debba spiegare perché, visto che non mi è affatto chiaro. Perché la gente è più spiritosa, forse. Perché le fatiche sembrano meno faticose, quando la gente è più spiritosa. Perché sono terrona, e loro pure.

Paragonare Santiago all’Avana sarebbe un errore, comunque. Di quelli che ti impediscono di capire una città. Santiago non è in competizione perché possiede molto di meno in termini di comfort, tecnologia e modernità (oddio, tecnologia, prendete il termine per quello che vale) e molto di più in termini di capacità di intrigarti. Conoscerla, è già un concetto più ambizioso.

Torno alla casa particular dove ero stata all’andata e mi fanno un sacco di feste, e come va il piede? Sei guarita dalla puntura di ragno? L’altro ospite è un prof francese della Réunion che starà qui qualche mese a imparare a suonare le percussioni, in aspettativa dalla scuola. Perché le percussioni alla Réunion seguono un ritmo diverso (6×8, e mi fa una dimostrazione sul tavolo) rispetto a come si suonano a Cuba (4×4, altra dimostrazione) e alla Réunion sono più vicini alla tradizione africana mentre qui sono più autoctoni, mi spiega, e ci inoltriamo in una pensosa analisi dei giri che fanno le musiche e i popoli attorno al mondo e avanti e indietro nel tempo, dall’Africa al jazz degli Stati Uniti e ritorno, passando per il flamenco via India e non la finiamo più di parlare, mentre il rum si fa sentire e il giorno dopo avrò un mal di testa di quelli che vuoi morire. Basta rum, basta.

Il mio mal di testa me lo porto al Moncada, uno dei luoghi più simbolici della storia di questo paese. Il Moncada è un’ex caserma militare, nonché il posto dove tutto andò male quando Fidel, Raúl e un gruppo di uomini con loro cercarono di attaccarla, agli albori di quella che poi sarebbe diventata la rivoluzione cubana. Quella volta alcuni si persero, altri sbagliarono e, nella confusione, i militari riuscirano a sopraffare i guerriglieri, trucidandone molti e arrestandone alcuni, tra cui i fratelli Castro. Nel processo che seguì, Fidel, che era avvocato, si difese da solo. La sua arringa, poi pubblicata col titolo “La Storia mi assolverà”, possiede una forza che turba ancora oggi. Ma, tra i due fratelli, quello che davvero mi colpisce mentre percorro le sale del piccolo museo e guardo le fotografie e le prime pagine dei giornali dell’epoca, è Raúl. Era un bambino, cielo santo. Giovanissimo, esile. Eppure, il suo fu il gruppo che ebbe più successo nell’attacco. Guardo la foto di questo biondino che pare troppo giovane persino per avere una donna, figuriamoci per attaccare le caserme. Eppure.


Tolte le tre salette del museo, il resto della caserma venne trasformato in comprensorio scolastico alla fine della rivoluzione. Al posto dei soldati, centinaia di bambini e di ragazzini, dalle elementari alle superiori. Passo davanti alle classi, che hanno le finestre spalancate, e guardo le lezioni. L’impressione è ottima. Tutto è pulitissimo, ben tenuto, ci sono cartelloni e disegni alle pareti, ascolto i bimbi che rispondono in coro alle domande di ortografia (i perpetui problemi dell’ortografia spagnola, le stesse cose che insegno io) e che sembrano divertirsi, molto partecipativi, e c’è un enorme campo sportivo dove un tempo si allenavano i soldati ed è pieno di queste pulci che fanno ginnastica, e sono di ogni colore possibile: biondini, brunetti, mulatti, nerissimi, tutti allegramente mischiati, tutti nella loro divisa impeccabile e uguale per tutti, come uguale per tutti è la scuola.



Io non vorrei sembrare ideologicamente condizionata. Non credo nemmeno di esserlo, al di là di una mia generica collocazione a sinistra. Ma ho girato per buona parte del Centro America solo qualche mese fa e sarei cieca, idiota o in malafede se non vedessi la differenza. Dal Chiapas al Guatemala, dall’Honduras al Salvador e, anche se in misura minore, fino in Nicaragua, quello che vedi sono bambini che lavorano o che chiedono l’elemosina. Li vedi con la zappa in spalla, in Chiapas, diretti verso il campo, e avranno quattro o cinque anni. Minuscoli. Li vedi laceri, che si avventano sui bus turistici e chi lava i vetri, chi lucida le fiancate, chi prende le valigie, chi lustra le scarpe agli autisti. Li vedi sporchi, col moccio al naso, la mano tesa, e non vuoi nemmeno chiederti cosa ne sarà di loro. E li vedi vivere come possono all’interno di società violentissime, senza altro diritto o protezione che quello che gli può dare, a fatica, chi li ha messi al mondo.

Poi arrivi a Cuba e i bambini non lavorano, non chiedono l’elemosina, non fanno nulla di tutto questo: vanno semplicemente a scuola tutti quanti, lindi e pinti, con le loro belle divise, e sono protetti e tutelati dallo Stato, oltre che dalla mamma. E, quando non sono a scuola, sono a giocare. Hanno diritti. E se si ammalano vengono curati. Io ancora ricordo il prezzo spaventoso di un farmaco che dovetti comprare in Guatemala, e il farmacista che mi spiegava che i poveri, là, semplicemente restavano senza. I bambini che osservo adesso sprizzano salute, sono di un altro pianeta.

Se non si vede questo, quando si arriva a Cuba, si è ciechi. O si è, e per davvero, ideologicamente condizionati. L’evidenza deve avere un valore, e questa è evidenza. Pura, indiscutibile evidenza. Poi possiamo discutere fino all’anno prossimo dei difetti di Cuba, certo che sì. Ma partendo da questa indiscutibile realtà, per cortesia.

Rimango parecchio a sbirciare le lezioni altrui: vorrei avere il coraggio di entrare, presentarmi come prof straniera e chiedere di assistere da dentro, ma non oso. Ho nostalgia della scuola, intanto. Poi i bimbi cominciano a uscire e io li guardo per un po’ – vorrei fotografarli perché sono bellissimi, poi lascio perdere perché il mondo è brutto e non è più tempo di fotografare bambini – e infine fermo l’ennesima motoretta, monto su e vado. Con in mente ancora tutti questi colori, colori di pelle, colori di capelli, colori dei mille nastri nei capelli delle bambine. Tu pensa: avere il potere di trasformare le caserme in scuole, che bello che deve essere. Che soddisfazione. Sulla moto, penso che Cuba l’ha vissuto assai intensamente, la sua storia, e un po’ di questa intensità me la sento addosso pure io.

Il ragazzo che guida la moto è più prosaico, invece, e vuole sapere se in Italia c’è lavoro per un cubano. Guarda che l’Italia è piena di razzismo, gli dico. Se proprio vuoi andare a lavorare in Europa vattene in Spagna, rifletto. Almeno parli la lingua ed è tutto più facile. Ma la Spagna è in crisi, dice lui. Eh, sapessi l’Italia, dico io.



www.ilcircolo.net/lia/2014/05/27/di-nuovo-a-santiago/
o


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