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Santeria

Ultimo Aggiornamento: 17/12/2013 11:17
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28/10/2013 19:17
 
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La santeria (santería secondo la grafia spagnola) nasce dal sincretismo di elementi della religione cattolica con altri della religione tradizionale yoruba, praticata dagli schiavi africani e dai loro discendenti a Cuba, in Brasile, Porto Rico, Repubblica Dominicana, Panamá e anche in luoghi con molti immigrati latinoamericani negli Stati Uniti (come Florida, New York e California).

Il termine "santeria" è stato coniato dagli spagnoli per denigrare quella che a loro pareva un'eccessiva devozione ai santi da parte dei loro schiavi, che andavano in questo modo a non comprendere il ruolo principale di Dio nella religione cattolica. Questo atteggiamento nacque da una costrizione imposta loro dagli schiavisti: la proibizione tassativa, pena la morte, di praticare le proprie religioni animiste, portate con loro dall'Africa occidentale, li costrinse a trovare una soluzione per aggirare questo divieto e cioè di celare, nel vero senso della parola, dietro l'iconografia cattolica i loro Dei, così da essere liberi di adorarli senza incorrere nella crudeltà dell'oppressore. In tal modo i dominatori spagnoli pensarono che gli schiavi, da buoni cristiani, stessero pregando i santi, quando in realtà stavano di fatto conservando le loro fedi tradizionali.

"Santeria" è un termine dispregiativo inventato dai bianchi colonialisti cattolici spagnoli... Invece i santeri praticanti cubani (sia bianchi che neri che mulatti) preferiscono utilizzare altri termini ufficiali come Lukumi o ancor meglio Regla de Ocha.



Quadro storico

La Santeria cubana, forma religiosa politeistica, ha ricevuto un nuovo impulso alla fine dell'Ottocento con il ritorno in Africa di alcuni schiavi liberati. Nel XX secolo un nuovo impulso è dato dalla rivoluzione cubana del '59. Due le conseguenze di rilievo: l'esportazione del culto nell'America Settentrionale e in secondo luogo il nulla osta del regime castrista alla pratica di questa religione per motivi ideologici anche in funzione anti-cattolica e di valorizzazione della cultura popolare e delle classi più povere, che per forza di cose erano d'origine afroamericana. Infine il crollo del Muro e la conseguente apertura al turismo, soprattutto europeo, ha portato alla diffusione del culto anche nel Vecchio Continente, sia tramite l'emigrazione cubana, sia attraverso i visitatori europei rimasti affascinati dalle pratiche e dai culti della Santeria.



Influenze culturali e rituali

L'influenza della Santeria sulle espressioni culturali tipicamente cubane è marcata, soprattutto nell'ambito della danza e della musica. I generi musicali afrocubani (prima di tutto nella Rumba che è la danza più strettamente legata alle radici africane, ma anche Mambo alla Salsa, forse meno il Son) risentono fortemente delle figure ritmiche e sincopate utilizzate nei raduni rituali ad esempio a base di tamburi in onore del dio, o santo, Changò. Brano simbolo che racchiude tutta la magia della santeria è ¿Y QUE TU QUIERES QUE TE DEN? del maestro Adalberto Alvarez inframezzato da canti in lingua yoruba, stessa lingua con cui ancora si officiano i riti. La danza altrettanto si ispira ai riti d'origine Yoruba. Ogni santo ha un suo caratteristico movimento che lo distingue dagli altri. Il regime cubano considera queste espressioni artistiche un patrimonio culturale della nazione e le ha quindi elevate a livello accademico, rivalutandone l'importanza anche per una questione politica. La santeria infatti rappresenta un valido strumento di contrapposizione al cattolicesimo. Grazie a ciò sono diventati famosi nel mondo gruppi di canto e danza folklorici, quali il "Conjunto Folklorico Nacional", "Los Muñequitos de Matanzas", "Yoruba Andabo" ed il compositore Lazaro Ros.

Gli adepti della Santeria a Cuba, pur ammettendo le similitudini e le comuni origini con Candomblé e Macumba brasiliani e il Vudù haitiano, sostengono di non praticare la magia nera, ma solo quella bianca. In pratica esclusivamente divinazione, e riti per favorire successi in amore, in ambito economico e di salvaguardia della salute o nella cura di malattie. Litanie e formule liturgiche sono presumibilmente in lingua Yoruba (della famiglia di lingue nigero-congolesi) che in realtà pochi capiscono (ma recitano a memoria) e le pratiche private sono improntate sul culto dei morti e degli antenati ai quali si riserva un angolo della casa e si offrono cibo e bevande, specifiche per ogni santo. Presente anche il concetto induista-buddista della reincarnazione, in particolare per chi non pratica i rituali. Ci sono poi i rituali collettivi accompagnati dai tamburi con fenomeni di possessione, trance ecc.


Divinità

Le principali divinità della Santeria cubana sono comunque simili se non identiche a quelle delle altre religioni afro-americane. Si tratta di una sorta di pantheon dove però, oltre alle varie divinità, si trovano dei concetti astratti a dimostrazione di un discreto livello di sviluppo religioso, filosofico e metafisico. Ad esempio la trilogia Olofi-Olordumare-Olorun che semplificando sono il creatore-la legge universale-la forza vitale (una sorta di Santissima Trinità). Sono fonte dell'Aché, il dono, la grazia, l'energia spirituale. Per alcuni non si tratta di una trilogia, ma di un Dio unico, quindi la santeria sarebbe una religione monoteista, e i rimanenti Orishas dei semidei (esseri umani che in vita hanno fatto grandi cose ed una volta morti sono stati eletti al rango di divinità) che impersonificano la natura con funzione di messaggeri della divinità primordiale. Questi ultimi (circa 400 nella religione originale Yoruba, una quarantina nella Santeria, di cui solo una quindicina quelli conosciuti dalla maggioranza dei fedeli) ricordano per contro parecchio la mitologia greca con le varie divinità antropomorfe in guerra, che si rubano le compagne, si vendicano, stuprano, si alleano e si proteggono vicendevolmente. I racconti mitologici di queste divinità, non di rado in contraddizione tra di loro, sono chiamati Pattakìn e sono di notevole interesse antropologico.

Alcuni dei principali Orishas (santi) della Santeria cubana semplificando sono:

Elegguà: Dio protettore di viaggiatori, è colui che apre e chiude le strade e gli incroci, che quando balla assomiglia ad un bambino dispettoso, messaggero, detiene le chiavi del destino. Nei rituali ha il privilegio di essere sempre il primo (abre el camino). È protettore di viaggiatori, strade ed incroci. Cattolicizzato con Sant'Antonio di Padova, i suoi colori sono il rosso e il nero. Lo strumento che lo identifica è il garavaco (un bastone di legno a uncino) che usa per aprire e chiudere il cammino degli uomini.

Obatalà: Primo tra gli Orishas. Il creatore della terra. Divinità pura per eccellenza, ama la pace ed è misericordioso. È il dio della testa, del pensiero e dei sogni. Cattolicizzato come la Vergine "de la Mercedes", il suo colore è il bianco. Viene spesso identificato come un anziano che stenta a camminare ma può anche essere rappresentato come un giovane guerriero.

Yemayà: Madre della vita e degli altri dei. Moglie o, secondo le versioni, figlia di Obatalà. Dea dell'acqua salata e quindi del mare come fonte primordiale di vita. Protettrice delle partorienti, di pescatori e marinai. Corrisponde alla Vergine Maria (Nuestra Señora de la Regla, patrona della Baia di L'Avana). I suoi colori sono il bianco e l'azzurro.

Changò o Shangò: Dio della virilità, della mascolinità, del fuoco, di fulmini e tuoni, della guerra, della danza e della musica in particolare dei tamburi. Quarto re Yoruba del regno Oyo. Innumerevoli le sue avventure amorose e i litigi con i rivali. Le sue presunte mogli o amanti sono almeno tre: Ochun (vedi sotto), Oyà (dea guerriera del vento e guardiana del cimitero, moglie di Oggùn che per questo è rivale e nemico di Changò), e Obba (unica moglie ed eterna innamorata di Changò che per lui si tagliò un orecchio), ma è certo che è stato con tutte le donne del pantheon Yoruba. Figlio di Agallu e Baba. Il santo cattolico è come per Obatalà stranamente femminile ed è Santa Barbara. I suoi colori sono il bianco e il rosso. Indossa una corono che lo identifica.Porta uno scudo, una spada e una scure.

Ochùn o Oshùn: Il corrispettivo femminile di Changò (di cui è amante). Dea dell'amore, della bellezza, della femminilità e dei fiumi. Un po' "coquette" protetta da Elegguà e Yemayà. Cattolicizzata come la Vergine "de la Caridad del Cobre" (patrona di Cuba). Colore il giallo, l'oro.

Orula: la divinazione personificata, principale benefattore del genere umano perché gli svela il futuro e lo consiglia. Pure figlio di Yemayà, ma da un rapporto incestuoso con il figlio. A secondo delle diverse versioni può essere identificato nel cattolicesimo come San Francesco D'assisi o come Gesù Cristo. I suoi colori sono il giallo e il verde.

Babalú Ayé: Dio guaritore di numerose malattie veneree, della pelle, della lebbra, del colera, delle infermità in genere ecc. Per questo è dunque associato a San Lazzaro. Il suo colore è porpora vescovile. Questo in Africa era il santo principale e più venerato, all'Avana esiste un santuario in suo onore (Rincon), dove si recano ogni anno il 17 dicembre migliaia di infermi.

Oggùn: Un montanaro solitario e irascibile, dio del ferro - San Pietro), salvato dall'ira di Obatalà da Elegguà e protetto dal fratello maggiore Changò. I colori sono giallo e verde. Orisha fabbro, forgiatore di metalli e mentore di tutti coloro che con i metalli hanno a che fare, soldati e armigeri compresi. Per estensione di culto viene anche associato alla guerra e alla violenza, in associazione-antitesi a Changò, del quale è anche rivale in amore per essere stato, secondo un'antica Patakì (leggenda), sedotto e poi abbandonato dall'avvenente Oshùn, la quale usò le sue grazie al solo scopo di riportarlo verso gli uomini, dai quali si era distaccato per disgusto. Oggùn è un Orisha temuto per il suo carattere poco socievole e per la potenza delle sue armi, anche se non viene annoverato tra le entità malefiche.Vive nelle foreste usando un machete per uccidere gli animali e per spianarsi la strada Egli è solo l'archetipo delle manifestazioni violente insite nella natura umana. Il sincretismo con la Religione Cattolica lo associa a San Pietro, forse a causa di alcune manifestazioni di irruenza da parte del Padre della Chiesa.

Queste alcune delle divinità maggiori della Santeria. Ce ne sono poi un'infinità di minori. Naturalmente non ci sono delle regole univoche su nomi, attributi e leggende (patakkìn di tradizione orale catalogate solo nel XX secolo). I rituali variano a seconda delle scuole liturgiche (reglas). Spesso le divinità si confondono e il discorso sul fenomeno del sincretismo con la religione cattolica merita un capitolo a sé. È un tentativo del Cattolicesimo di integrare la Santeria, o un'astuzia degli schiavi che venerando i santi cattolici evitavano angherie e persecuzioni? È questo un dibattito trattato da antropologi e storici come Sixto Gaetan Agüero e Kali Argyriadis.



Sistemi di divinazione


I sistemi di divinazione sono quattro:[1]

Il sistema di divinazione Diloggún utilizza la conchiglia, che anticamente in Africa veniva usata come moneta. Il santero lancia 16 conchiglie, in alcuni casi "leggendone" solo 12. L'interpretazione e il responso viene fatta in base al numero di conchiglie cadute con la parte concava in alto e mediante una successione di lanci.

Il sistema divinatorio Biague necessita del cocco, che viene usato come offerta rituale donata agli Orisha e in onore degli antenati. Si lanciano in aria quattro parti di cocco e il responso viene determinato a seconda della posizione, lato cavo o lato convesso, che assumono sul pavimento.

Il sistema divinatorio Ékuele che utilizza uno strumento particolare, una catena formata da otto parti. La catena viene lanciata in aria e a seconda di come sono posizionati i pezzi si può interpretare il responso della divinazione, che è arricchito da una serie di proverbi e racconti, inerenti al problema affrontato.

Il sistema divinatorio Tablero de Ifá richiede lo spargimento di una polvere bianca magica ricavata da una zanna di elefante su un tavolo particolare i cui quattro lati sono abbinati ad altrettante divinità. Il babalawo, il sacerdote incaricato della divinazione, in funzione di quanti semi di kola (ikines) rimangono nella sua mano sinistra (1 o 2 su 16) traccia dei segni sul tablero, ottenendo la stessa combinazione dell'ekuelé.



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03/11/2013 08:57
 
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Orishas

Los Santos son dioses (orishas) que deben adorarse. Olodumare creó a los orishas para manifestar su voluntad y su esencia en la creación. Ellos son una personificación de Ashe. Los orishas también son los guías y protectores de la raza humana. Los santos que tomaron para identificarlos con los orishas eran los mas conocidos en la Iglesia en Cuba. La Virgen Santísima en diferentes advocaciones es también identificada con un orisha como si fuese un santo mas. La identificación tiene que ver con las vestimentas o las razones por las que el santo o la Virgen es conocida. Así Santa Bárbara, vestida de rojo y con espada en las imágenes católicas, se identifica con el dios shangó, guerrero a quien se le atribuye la fuerza.

En la santería, la vida de cada persona está supervisada por un santo (orisha) que toma parte activa su vida diaria.
[Modificato da cubanito74 03/11/2013 09:46]


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Elegguà







Orisha guardián de las casas y dueño de los caminos. Utiliza un garabato para atraer. Tiene las llaves del destino, abre y cierra la puerta a la desgracia o la felicidad. Es la personificación del azar y la muerte. Portero del monte y la sabana. Es hijo de Obbatalá y Yemú. Es el primero del grupo de los guerreros (Elegguá, Oggún, Ochossi, y Oshun). Ganó con Olofi, Obbatalá y Orula suficientes privilegios para ser el primero: Ocana. Tiene 21 caminos y sus caracoles son 21. Es amigo y protector de Ochún.
En el diloggún habla por Ocanasodde (1), Ogundá (3), Oddí (7), y Ojuani (11). Sus días son lunes y martes y todos los que caigan 3 ya que ese es su numero. Se encuentra muy vinculado a Eshu. Su receptáculo es una güira o una freidera de barro. La piedra se manda a buscar con dependencia del camino que marque la letra (la loma, el río, la montaña, etc.) y puede ser de distintas formas, aunque siempre de aspecto humanoide. El Elegguá entregado por un Santero sólo puede llevar carga rústica, o caracol, y una mano de caracoles. El Elegguá de masa, de rostro humanoide que lleva una carga mística, son entregados según el oráculo de Ifá, por el Babalawo, aunque muchos Santeros los entregan inapropiadamente. También se le representa en un coco seco. A Elegguá se le atribuyen todos tipos de objetos utilizados en los juegos infantiles; así como todo tipo de llaves, machete, garabato, sombrero de guano, artes de caza y pesca, pepitas de oro y monedas de plata, palos de monte, tarros de venado, cocos, etc. Sus collares están conformados por cuentas de color rojo y negro, alternas, que representa la vida y la muerte, la guerra y la paz, el principio y el fin. Se le ofrenda aguardiente, tabaco, maíz tostado, coco, pescado ahumado, bollitos, jutía ahumada, manteca de corojo, velas, dulces de todo tipo, caramelos. Sus hijos son inteligentes y hábiles, pero poco escrupulosos. El timo, la intriga política y la estafa les garantiza el éxito en la vida.
Sincretiza con el Santo Niño de Atocha.



PATAKI
Un día siendo muchacho andaba con su saquito y vio una luz brillante con tres ojos, que estaba en el suelo. Al acercarse vio que era un coco seco (obbi ). Elegguá se lo llevó al palacio, le contó a sus padres lo que había visto y tiró al obbi detrás de la puerta. Poco después todos se quedaron asombrados al ver la luz que salía del obbi. Tres días mas tarde, Elegguá murió. Todo el mundo le cogió mucho respeto al obbi que seguía brillando pero con el tiempo, la gente se olvidó de él. Así fue que el pueblo llegó a verse en una situación desesperada y cuando se reunieron los arubbo (viejos) llegaron a la conclusión que la causa estaba en el abandono del obbi.
Este, en efecto, estaba vacío y comido de bichos. Los viejos acordaron hacer algo sólido y perdurable y pensaron en colocar una piedra de santo (otá) detrás de la puerta en el lugar del obbi. Fue el origen del nacimiento de Elegguá como Orisha o santo. Por eso se dice: Ikú, lobi, ocha. El muerto parió al santo. Ningún Orisha le antecede porque el mismo Olófi dijo: Siendo tú el más chiquito y mi mensajero, serás el más grande de la tierra y sin contar contigo nunca será posible hacer nada. También Olófi accedió a que fuera saludado y a que comiera antes que los demás orishas, así como a ser el primero a la entrada de la casa. Se celebra el día 6 de Enero y 13 de Junio.


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03/11/2013 09:51
 
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Obatala






Mayor de todos los orishas. Creador de la Tierra y escultor del ser humano. Es la deidad pura por excelencia, dueño de todo lo blanco, de la cabeza, los pensamientos y los sueños. Hijo de Olofi y Oloddumare. Es misericordioso y amante de la paz y la armonía. No admite que nadie se desnude en su presencia o se profieran palabras duras o injuriosas. Sus devotos deben ser muy respetuosos. Tiene 24 caminos o avatares. En el diloggún habla por Unle (8) y le pertenecen todos los múltiplos y submúltiplos de 8 que es su numero. Sus hijos son personas de férrea voluntad, tranquilas y dignas de confianza. Son reservados y no acostumbran lamentarse de los resultados de sus propias decisiones. Son dados a las letras. Dueño de la plata y los metales blancos. Lleva bandera blanca. Dueño de iroko (la ceiba), su vellón es el algodón y una rama de este árbol debe estar en la estera para el kari osha de su Iyabó. Tiene campana de plata. Su collar es todo blanco y se insertarán cuentas de color típico de acuerdo al camino.

OBBATALÁ en Cuba es andrógino, pues se personifica en su sincretismo con la Virgen de las Mercedes (24 de septiembre), o con el Santísimo.
Dueño de la paz y Mayor de los Orishas. Se viste todo de blanco, que es su color, y se le conserva en un sitio alto.
Es un santo extremadamente riguroso, sus devotos no pueden proferir blasfemias, ni beber alcohol, ni siquiera desnudarse ante otros.
Creador de la Tierra, escultor del ser humano, dueño de las cabezas, de los pensamientos y los sueños, Obbatalá es respetado por todos los Orishas, a quien buscan como su abogado.
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Pataki de Obatalá


En el principio de las cosas, cuando Oloddumare bajó al mundo, se hizo acompañar de su hijo Obatalá. Debajo del cielo sólo había agua. Entonces Oloddumare le entregó a Obatalá un puñado de tierra metido en el carapacho de una babosa y una gallina. Obatalá echó la tierra formando un montículo en medio del mar. La gallina se puso a escarbar la tierra esparciéndola y formando el mundo que conocemos. Olofi también encargó a Obatalá que formara el cuerpo del hombre. Así lo hizo y culminó su faena afincándole la cabeza sobre los hombros. Es por eso que Obatalá es el dueño de las cabezas.
En cierta ocasión los hombres estaban preparando grandes fiestas en honor de los Orishas, pero por un descuido inexplicable se olvidaron de Yemayá. Furiosa, conjuró al mar que empezó a tragarse la tierra. Daba miedo verla cabalgar, lívida, sobre la más alta de las olas, con su abanico de plata en la mano. Los hombres, espantados, no sabían qué hacer y le imploraron a Obatalá. Cuando la rugiente inmensidad de Yemayá se precipitaba sobre lo que quedaba del mundo, Obatalá se interpuso, levantó su opaoyé y le ordenó a Yemayá que se detuviera. Por respeto, la dueña del mar atajó las aguas y prometió desistir de su cólera. Y es que ¿si Obatalá hizo a los hombres, cómo va a permitir que nadie acabe con ellos?
[Modificato da cubanito74 03/11/2013 09:56]


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03/11/2013 09:55
 
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Yemayà






YEMAYA vive y reina en los mares y los lagos. Ella también domina la maternidad en nuestras vidas y es la Madre de Todos. Su nombre, una versión corta de Yeye Omo Eja significa "La Madre cuyos Hijos son los Peces", nombre que refleja el hecho de que sus hijos son innumerables. Toda vida comenzó en el mar, el liquido amniótico dentro del vientre de la madre es una representación del mar, donde el embrión se debe transformar y evolucionar en forma de pez antes de convertirse en un bebe humano. De esta forma Yemayá se revela a si misma como la verdadera madre de todos. Ella, y la raíz de todos los caminos o manifestaciones, Olokun, es la fuente de todas las riquezas, las cuales Yemayá liberalmente entrega a su pequeña hermana Oshún. Se viste con siete faldas a rayas azules y blancas y, como los mares y lagos profundos, ella es profunda y desconocida. En su camino como Okuti ella es la reina de las brujas, llevando dentro de ella secretos profundos y obscuros. En Brasil se celebra anualmente una ceremonia en la cual se le entregan ofrendas.

En el diloggún habla por Oddi (7) que es su numero, y su día es el sábado. Sus colores azul y blanco. Su receptáculo es una sopera blanca coloreada de azul con florones. Sincretiza con la Virgen de Regla. Sus hijos son mujeres voluntariosas, fuertes y rigurosas. En ocasiones son arrogantes; pero siempre maternales y serias. Les gusta poner a prueba a sus amistades. Se resienten de las ofendas y nunca las olvidan, aunque las perdonen. Aman el lujo y la magnificencia. Son justas, un tanto formalistas, porque tienen un innato sentido de las jerarquías. “No hay más que una Yemayá, una sola con siete caminos”



Pataki de Yemayá (Reina madre de los orishas)

Yemayá descansaba en el fondo del mar, jugando con las conchas y pececillos multicolores. Sentía una gran nostalgia por la vida en la tierra y soñaba con sus hijos a los que hacía tiempo no veía. De pronto, entre el susurro de las olas, oyó el tam tam de los tambores. Decidió engalanarse con sus corales y madreperlas, con sus sayas de azules claros o intensos como las espumas de su querido mar. Montada en su coche tirado por delfines, se dirigió a tierra para ir al encuentro de la fiesta que estaba en su apogeo en la orilla. Al llegar Yemayá, grande entre las grandes, mujer de extraordinaria belleza, se hizo un silencio para saludar como se merecía a esta orisha a quien todos respetaban y amaban. Pero Changó, altanero, que había sido separado de su madre cuando niño, sin reconocerla, decidió romper el fuego y la invitó a bailar al sonido de los sacros tambores. Embriagado por la belleza de la mujer, por la bebida y por su éxito como bailador y como orisha-hombre, la invita y la enamora. Yemayá se siente ofendida y decide darle una lección. Con sus encantos, fue llevando a Changó hasta el mar y lo invitó a ir hasta su ilé. Changó le confesó que no sabía nadar. Y ella, riéndose, le aseguró que nada le pasaría. Adentró su bote en el mar; Changó, extasiado, desplegó todos sus encantos, pero ella se lanza al mar y lo convierte en remolinos, en olas gigantescas. Tal es el oleaje, que vira el bote. Changó llama a Yemayá desesperadamente y ella, alzándose entre las encrespadas aguas, le dice: "Yo soy tu madre, respétame". Changó le pidió perdón y madre e hijo se abrazaron mientras las aguas volvieron a su nivel. Omi-o-Yemayá, Yalodde.


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Oshun





Orisha mayor. Dueña del amor, de la feminidad y del río. Es el símbolo de la coquetería, la gracia y la sexualidad femenina. Mujer de Changó e íntima de Elegguá, que la protege. Siempre acompaña a Yemayá. Vive en el río y siempre asiste a las gestantes y parturientas. Se le representa como una mulata bella, simpática, buena bailadora, fiestera y eternamente alegre, con el persistente tintineo de sus campanillas. Es capaz de resolver, como de provocar riñas entre orishas y los hombres. En el diloggún habla por Oché (5), Unle (8), Ofún (10) y en Obara-meyi (6-6), donde fue coronada. Su color es el amarillo, pero también se le atribuyen los coralinos y verde acua. Su día es el sábado y sus números son el 5, 10, 15 y 25.Su receptáculo es una sopera multicolor, con predominio del amarillo, llena de agua de río con otanes. Los otanes deben ser recogidos al amanecer del fondo de un río, y se guardan en tinajas de barro. Sus collares llevan cuentas amarillas o de ámbar. Se le llama por Yalodde. Sus hijos son simpáticos, fiesteros, muy voluntariosos en el fondo con un gran deseo de ascensión social. Aman las joyas, los perfumes y la buena ropa. Son sensuales, pero se esfuerzan por no chocar contra la opinión pública, a la que conceden grandísima importancia.

Sus collares llevan cuentas en número de cinco, amarillas alternadas con igual número de cuentas de color ámbar. Se le llama por Yalodde. Sincretiza con la Virgen de la Caridad del Cobre Patrona de Cuba; y se le celebra los días 8 de septiembre.




Pataki de Oshun


Oshun era vigilante de Obatalá. Obatalá vivía con su mujer, Yemú, y sus hijos Oggún, Ochosi y Elegguá. Oggún era preferido y sus hermanos tenían que obedecerlo. Oggún estaba enamorado de su madre y varias veces estuvo a punto de violarla, pero Elegguá siempre le avisaba a Oshun, quien venia y regañaba a Oggún. Entonces Oggún echó a la calle a Elegguá y le dio montones de maíz a Oshun para que no lo delatara. Oshun comía y luego dormía y Oggún podía disfrutar de su madre. Elegguá le fue con el cuento a Obatalá, que no lo quería creer, pero al otro día volvió más temprano. Obatalá vio a Oshun acostado y a Oggún abusando de su madre, y llegó a su casa furioso. Fue cuando Oggún se maldijo a si mismo y Obatalá le dijo a Oshun: "Confiaba en tí y te vendiste por maíz". Y nombró a Elegguá su vigilante. Desde entonces Oshun perdió el cargo.

LEYENDA DE LA VIRGEN DE LA CARIDAD DEL COBRE



Dos hermanos, Rodrigo y Juan de Hoyos, viven en el año de 1620 en el hato de Barajagua, en el término real de la Minas del Cobre, provincia de Santiago de Cuba. Un día salen en su embarcación rumbo a la bahía de Nipe, en busca de sal. Los acompaña Juan Moreno, niño negro de unos diez años. Ya en la desembocadura del río Mayarí, se detienen en cayo Francés.
Mientras descansan, el mar se embravece, por lo que deciden esperar. Al amanecer del tercer día se tranquilizan las aguas, siendo el momento de reanudar el viaje luego de haber perdido tres días de espera. La barca navega con bonanza. Cuando apenas se han alejado del cayo, uno de ellos observa “algo” que flota sobre las olas... ¿algún naufragio? No lo divisan bien, aunque los rayos del sol iluminan el objeto.

Llenos de curiosidad, ponen proa hacia él y observan que es una imagen de la Santísima Virgen María. Se acercan y con gran amor y acatamiento la introducen en la barca. Sucede algo inaudito que llenó de estupor a los piadosos marinos.
Además del prodigio de no hundirse la imagen por su propio peso, contemplan, llenos de admiración, que ni siquiera el vestido de la imagen estaba mojado.

De regular estatura, el rostro algo moreno, los ojos dulces, majestuosos y vivos. En su mano izquierda sostiene un hermosísimo Niño Jesús, y en su derecha sustenta una cruz de oro. Sobre la tabla donde navegaba la venerada imagen, unas letras grandes y claras decían:

“Yo soy la Virgen de la Caridad”
[Modificato da cubanito74 03/11/2013 09:58]


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Shango





Orisha mayor. Dios del fuego, el rayo, el trueno, la guerra, de los itú batá, de los bailes, la música y la belleza viril. Patrón de los guerreros y las tempestades. Su número es el 4. Habla en el diloggún por Obbara (6), por el 4, el 11, el 12; 8-6, 8-9, y el 6-6. En los obbi habla en Alafia, Itawa, Elleife y Oyekun. Sus días son el viernes y todos los días 4 de cada mes. Sus colores el rojo y el blanco. Sincretiza con Santa Bárbara. Representa el mayor número de virtudes e imperfecciones humanas. Es trabajador, valiente, buen amigo, adivino y curandero; pero también mentiroso, mujeriego, pendenciero, jactancioso y jugador. Es el padre de los Ibbeyis. Sus mujeres son Obba, Ochún y Oyá. Respeta mucho a los egguns. A veces se le representa a caballo, Esinlo, su compañero inseparable. Sus hijos son hombres voluntariosos, enérgicos, de inteligencia desmedida, altivos, y conscientes de su valor. Toleran las discrepancias con dificultad y son dados a violentos accesos de cólera. Pendencieros, fiesteros y libertinos, verdaderos espejos de machismo. Su receptáculo es una batea de madera de cedro, con tapa, en colores rojo y blanco. Puede ser sencilla o en forma de castillo.


Shango es uno de los orishas más venerados de la religión de origen yoruba en Cuba, el más fuerte e importante. Dios del rayo, el fuego, la guerra, de los itú batá (tambores sagrados), del baile, la música y de la gallardía viril. Representa el mayor número de las imperfecciones humanas: buen amigo, trabajador, valiente, adivino y curandero; pero también mentiroso, mujeriego, pendenciero, jactancioso, jugador y bebedor.

Yemayá, si no es la madre carnal de shangó, lo adora como una madre. Su padrino Osain fue quien le dio el secreto de las hierbas.

Valiente y atrevido; hecho al desafío y al reto, Shangó se muestra orgulloso de sus virtudes machistas, poseído de su fuerza y belleza varonil. Antiguo rey guerrero convertido en dios, marido de Oyá la guerra, de Obbá la fiel, y de Ochún la seductora, es uno de los mayores dioses tutelares de la santería cubana.

Changó, en uno de sus caminos o avatares es reconocido como Obbara



PATAKI DE SHANGO


Aggayú, el dueño del río, tuvo amores con Yemayá y de ellos nació Changó. Pero Yemayá no lo quiso y Obatalá lo recogió y lo crió. Al reconocerlo como hijo, le puso un collar blanco y punzó. Dijo que seria rey del mundo y le fabricó un castillo, Shangó bajó al Congo y se hizo un muchachón tan revoltoso que Madre de Agua Kalunga lo tuvo que expulsar de allí. Entonces tomó su tablero, su castillo y su pilón, con los que había bajado del cielo, y emprendió el camino del destierro. Andando y andando, se encontró con Orula, a quien le dio el tablero porque sabía que era hombre de respeto y lo iba a cuidar.
Changó se quedó adivinando con caracoles y coco, cantando, fiesteando y buscando broncas. Se casó con Obba, pero también vivía fijo con Oyá y Ochún. Oyá, como se sabe, era la mujer de Oggún, pero se enamoró de Shangó y se dejó robar por él. Este rapto dio origen a una guerra tremenda entre Changó y Oggún. En cierta ocasión Changó tuvo que esconderse de sus enemigos, que querían cortarle la cabeza, y se metió en casa de Oyá. Oyá se cortó sus trenzas y se las puso, lo vistió con su ropa y lo adornó con sus prendas. Cuando Shangó salió de la casa, sus enemigos, muy respetuosos, creyeron que era la santa, le abrieron paso y lo dejaron escapar.
Cuentan que como Shangó peleaba y no tenía armas, Osain, que era su padrino, le preparó el secreto (ingredientes) del güiro. Cuando lo tocaba con el dedo y se lo llevaba a la boca, podía echar candela por ella. Con eso vencía a sus enemigos. Cuando se oye tronar, se dice que es porque Shangó anda de rumbantela con sus mujeres o que cabalga por el cielo.



LEYENDA DE SHANGÓ



Santa Bárbara


Durante una guerra sin cuartel que le tenían declarada a Shangó, éste tuvo que esconderse de sus enemigos, superiores en número y fuerzas; y lo hizo en casa de Oyá.
Sitiaron la casa y no había manera de escapar. Entonces, Oyá se cortó sus trenzas, le vistió con sus ropas, lo adornó con sus joyas... Oyá y Changó tenían el mismo cuerpo; guapo y altanero como ella. Shangó salió vestido de mujer y ninguno sospechó que no fuera la misma Oyá; le abrieron paso y pudo escapar.

Cuando pasó el peligro, salió Oyá.
- ¡Pero, ¿qué es esto? Shangó se nos fue entre las manos!
Por tanto, la Santa Bárbara que se venera en la iglesia no es más que el mismo Shangó vestido de mujer.


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Oggun






OGGÚN es el segundo de los santos guerreros, uno de los más antiguos orishas, símbolo de fuerza primitiva y energía terrestre. Hermano de Changó, Elegguá, Ozun y Orula. Violento y astuto. Patrón de los herreros, macheteros, mecánicos, y de los que conducen todo tipo de vehículos. Su collar es de cuentas verdes y negras alternas. A veces una simple herradura o un clavo de línea férrea lo representa; sin dudas, una de las divinidades más complejas de la santería cubana.


Oggún es travieso y astuto como Elegguá, pero más voluntarioso. Sus símbolos son el machete, palas, picos, cadenas, y demás herramientas férreas. Está equiparado en Matanzas a San Juan Bautista; en otros sitios a San Pedro. Oggún vive en el monte y tiene muchos caminos o avatares, pero en los ilé-osha o templos, lo personifican en un caldero de hierro con tres patas y herramientas metálicas de todo tipo.

Orisha mayor es el dios de los minerales, del monte y las herramientas. Domina los misterios del monte como un brujo. Es el dueño de las llaves, cadenas y las cárceles. Sus números son el 3 y el 7 en combinación. En el diloggún es Oggundá (letra mayor). Sus días son el martes y miércoles, también todos los días 4 de cada mes. Su nombre es Oyó Oggún



Pataki de Oggún


Oggún, el dueño del hierro, es un montuno irascible y solitario. Cuando los orishas bajaron a la tierra fue él quien se encargó, con su machete infatigable, de cortar los troncos y las malezas para abrirles paso. Vivía entonces en casa de sus padres, Obatalá y Yemú y junto a sus hermanos Ochosi y Elegguá. Oggún estaba enamorado de su madre y varias veces quiso violarla, lo que no consiguió gracias a la vigilancia de Elegguá. Oggún se las arregló para conseguir su propósito pero, para su desgracia Obatalá lo sorprendió. Antes de que éste pudiera decir nada, Oggún gritó: "Yo mismo me voy a maldecir. Mientras el mundo sea mundo lo único que voy a hacer es trabajar para la Ocha". Entonces se fue para el monte sin más compañía que sus perros, se escondió de los hombres y ningún orisha que no fuera Ochosi, su hermano el cazador, consiguió verlo. Trabajaba sin descanso, pero estaba muy amargado. Además de producir hierros, se dedicó a regar ofoché por todas partes y el arayé comenzó a dominar el mundo. Fue entonces cuando Ochún se metió en el monte, lo atrajo con su canto y le hizo probar la miel de la vida.
Oggún siguió trabajando, pero perdió la amargura, no volvió a hacer ofoché y el mundo se tranquilizó. Hay quienes dicen que cuando salió del monte, Ochún lo llevó hasta Olorun, quien lo amarró con una cadena enorme, pero esto es un cuento. ¿Qué cadena podía ser más fuerte que la miel de Ochún?

OCHOSI

Orisha mayor. Hijo de Yemayá. Patrón de los que tienen problemas con la justicia, y de los casos desesperados; mago, adivino, curandero. En los güemileres baila con Ochún. Su número es el 3. Habla en el diloggún por eyioko (2). Sus días son lunes, miércoles y todos los días 3 de cada mes. Su nombre es Ochossi Ode Mata. Con él se hace ebbó para salir bien de las operaciones quirúrgicas, pues tiene relación con Avala, santo que es parte de Inle (médico de la Osha). Se le incorpora como atributo el bisturí. Su receptáculo es una freidera de barro junto con Oggún (para los aleyos); pero cuando es de fundamento va solo con todos sus atributos personales. Siempre acompaña los receptáculos de Oggún y Elegguá. Sus hijos son hombres vivos, rápidos, siempre alertas, llenos de iniciativas. Aman el cambio y las nuevas empresas. Son hospitalarios y amantes de la familia, aunque en ocasiones les haga sufrir por su tendencia a cierto nomadismo interior.

Sincretiza con Dan Norberto.



LEYENDA DE OGGUN OCHOSI

En una época en que Ochossi no podía llegar hasta sus presas porque la espesura del bosque se lo impedía, se fue a ver a Orula quien le aconsejó hiciese ebbó, esto es, una ofrenda y limpieza ritual ante un determinado orisha.

Oggún tenía un problema similar; aunque nadie era capaz de hacer senderos en el monte con más rapidez que él, nunca conseguía llegar a tiempo ante sus presas que se les escapaban. También se fue a ver a Orula y recibió instrucciones similares de hacer ebbó.


Ochossi y Oggún eran enemigos porque Eshu, la encarnación de los problemas que acechan al hombre, había sembrado cizaña entre ellos. Fue así que ambos rivales fueron al monte a cumplir con lo orientado por Orula.

Ochossi, sin darse cuenta, dejó caer su ebbó encima de Oggún que estaba recostado en un tronco; tuvieron una discusión fuerte, mas se disculparon. Mientras hablaban, a los lejos pasó un ciervo. Rápido como un rayo, Ochossi le tiró una flecha que le atravesó el cuello dejándolo muerto:

-Ya ves -suspiró Ochossi- yo no lo puedo coger.

Entonces Oggún cogió su machete y en menos de lo que se piensa, abrió un sendero hasta el animal. Muy contentos, lo compartieron; y desde ese momento acordaron en que eran necesarios el uno para el otro ya que separados no eran nadie, por lo que hicieron un pacto en casa de Orula. Por ello es que Ochossi y Oggún siempre están juntos.


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Oyà






Oyá-Yanzá: Orisha mayor y una de las amantes de Changó. Dueña de las centellas, los temporales, y en general, de los vientos. Violenta e impetuosa, ama la guerra y acompaña a Changó en sus campañas. Acostumbra acudir con un ejército de egguns y pelea con centellas y dos espadas. También es la dueña del cementerio, vive en su puerta y alrededores. Siempre se encuentra con Obba y Yewá. Junto con Elegguá, Orula y Obbatalá domina los 4 vientos. En el diloggún habla por Osa (9) y su refrán dice: “su mejor amigo es su peor enemigo.” En los obbi habla por Oyekun y Ocana. Su número es el 9. Su día el viernes, día de pagar castigos. Lleva todos los colores menos el negro. En Osha sus nombres son Oyá Bi, Oyá Funkó, Oyá Dumí, Oyá Mimú, Oyá Obinidodo, Oyá Agawa, Oyá Odó-Oyá, Yansá Orirí, Oyá de Tapa. Tiene una hermana, Ayao, que es virgen y no se asienta. El Iyabó se le sienta en silla. Su receptáculo es una sopera de porcelana pintada de 9 colores menos el negro. Sus hijas son violentas, poderosas, autoritarias, de temperamento sensual y voluptuoso. Pueden ser extremadamente fieles, aunque también dadas a las aventuras extraconyugales. A pesar de todo, siempre son muy celosas. Se sincretiza con Santa Teresita de Jesús.


Junto con Elegguá, Orula y Obbatalá, Oyá domina los cuatro vientos. Oyá es el arco iris y con sus colores. Casi nunca baja por medio de un poseso, pero cuando lo hace, llega con gestos arrogantes, fuertes y violentos, batiendo el aire con su iruke, un adminículo hecho con la cola de un caballo negro con el que limpia y sacude todo lo malo.


Oyá es la divinidad más relacionada directamente con el proceso de la muerte. Muchas veces se le invoca y se le da comida a la orilla de los ríos, mientras sus hermanas comen dentro del agua; así se simboliza la niñez de Oyá, el sacrificio de Ochún y el amor maternal de Yemayá.



Pataki de 0yá Yansá


Se sabe que Oyá acompañó a Changó en todas las batallas, peleando a su lado con dos espadas y aniquilando a los enemigos con su centella. El patakí es así:
Oyá estaba casada con Oggún, pero se enamoró de Changó y él la raptó (de ahí vino la famosa pelea entre los dos orishas). Un día Changó estaba alborotado en una fiesta cuando lo prendieron y encerraron en un calabozo con siete vueltas de llave. Changó había dejado su pilón en casa de Oyá. Pasaron los días y como Changó no venía, Oyá movio su pilón, miró y vio que estaba preso. Entonces Oyá cantó:

Centella que bá bené
Yo sumarela sube,
Centella que bá bené
Yo sube arriba palo.

No dijo más que esto y el número siete se formó en el cielo. La centella rompió las rejas de la prisión y Changó escapó. Entonces vio que Oyá venía por el cielo en un remolino, y se lo llevó de la tierra. Hasta aquel día Changó no sabía que Oyá tenía centella. Ahí empezó a respetarla.

HISTORIA DE OYA Y SUS HERMANAS



En épocas muy remotas había una tribu en que sus moradores, aunque pobres eran muy felices. Vivían en esa tribu tres hermanas de las cuales, la mayor se sostenía de lo que pescaba en el mar y ayudaba a la crianza de sus otras dos hermanas menores. La segunda, tratando de ayudar a la mayor, aunque tenía que cuidar de la más pequeña, sondeaba en los ríos cercanos, y con su producto también cooperaba con la mayor, por lo que ambas se querían mucho.

Mientras trabajaba, sujetaba a la pequeña a la orilla del río para evitar cualquier peligro; mas cierto día inesperadamente, fue invadido el territorio y como se encontraba algo distante no pudo oír los gritos de la pequeña que fue robada por los invasores.

La mayor cuyo nombre era Yemayá, se salvó por estar trabajando en el mar, así como la segunda cuyo nombre era Ochún, por estar lejos en el río, no teniendo la misma suerte la pequeña nombrada Oyá.
Las dos hermanas sintieron mucho la ausencia de su hermanita, pero la segunda fue tanta la impresión que recibió, que estuvo enferma muchos años, sintiéndose cada vez con más deseos de ver a su pequeña hija, como ella la llamaba.

Por esa causa, Ochún guardaba cada día unas monedas que le sobraban para liberar a su hermana, antes de que fuera doncella. Sabiendo a cuánto ascendía el precio de Oyá, entregó la cantidad en monedas de cobre al jefe de aquella tribu, quien lejos de cumplir su palabra, duplicó la cantidad que Ochún nunca podría pagar.

Cayó de rodillas delante de él y llorando suplicó sobre el cambio de palabras de aquel hombre frío y duro. La respuesta fue pedir a cambio de la libertad de Oyá, la virginidad de Ochún, prometiéndole no engañarla si ella accedía.

Ochún vaciló, pensó en su hermana Yemayá que ella tanto quería y a la vez respetaba, pero el amor hacia Oyá era superior a todo: era su vida, y Ochún se sacrificó. De regreso, acompañada de Oyá, contó a su hermana mayor lo sucedido y le pidió perdón. Esta la bendijo y perdonó, y con aquellas monedas de cobre producto de tantos sacrificios, adornó la cabeza de la pequeña Oyá, en recuerdo del sacrificio de Ochún. Creció Oyá, y Ochún para criarla siguió la vida de sacrificios que por ella empezó, hasta su mayoría de edad. Ochún, mujer alegre en la vida, pero santa y mártir de limpio corazón, Olofi la bendijo por su hermana menor, y a Yemayá por las dos.

En ese tiempo Olofi repartía las tierras del Mundo entre los que santamente eran merecedores. A Yemayá le dieron el gobierno de los mares, a Ochún el de los ríos; pero Oyá, no constaba en el reparto ya que no estaba en la tribu cuando pasaron lista por estar cautiva. Ochún lloró y suplicó a Olofi quién contestó:

-Hija mía, las tierras del Mundo están repartidas, sólo queda un lugar sin dueño, si ella lo quiere, de ella es.-

Era el cementerio y por ver feliz a sus hermanas, aceptó.


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Babalu Aye





Orisha mayor y santo muy venerado. Deidad de la viruela y la lepra, de las enfermedades venéreas y de las afecciones de la piel. Se le considera hijo de Naná Burukú, aunque algunos estiman que nació directamente de Obbatalá. Babalú Ayé es un título que significa Padre del Mundo. A este santo le gusta trabajar con muertos. El Orisha nos se asienta, se recibe. Su color es el morado obispo y su día el viernes, para otros es el miércoles. Su número es el 17 y habla en 4, 11 y 13. También se conoce por Agróniga Omobitasa, Aguojonú, Asoyí (el obispo), Atimaya, Asojano, Abeolomi, Chopono, Ayanise, Nikeu Babalú Borilá, Babalú Aguaditasa, y Afimayé. Su receptáculo es una cazuela plana (muy similar a la freidera de Elegguá), pero más grande, tapada con otra a la inversa sin sellar. La parte superior tiene un orificio al que se le insertan plumas de gallina de guinea. También puede ser una güira alargada y cortada a lo largo. Sus atributos son un Ajá, es decir, un manojo de varetas de palma de corojo o de coco que en su extremo inferior están atadas con tela de saco (yute). Se le añaden cauries y cuentas para adornarlo. Sus collares son de cuentas blancas rayadas en azul. Se le viste con tela de yute o de cuadritos abigarrados (tela escocesa), y se adorna con muchos cauris. Se sube y aparece siempre como enfermo, torcido y con las manos agarrotadas. Cojea y se muestra tan débil que se cae. Su hablar es gangoso. En ocasiones hace gestos como para espantar insectos. También agita el Ajá en el aire, un rito de limpieza, barriendo todo lo malo. Sincretiza con San Lázaro (Acompañado de sus fieles perros, nombrados Maravilla y Siempre Viva, llagado y encorvado, camina penosamente sonando unas tablillas que anuncian su presencia, para que la gente huya y pueda librarse de su contagio) y se celebra los días 17 de diciembre.

Babalú-Ayé castiga mediante la gangrena, la lepra y la viruela. Le pertenecen todos los granos, y las mujeres a quienes aconseja en asuntos amorosos.


Babalú-Ayé es portador de magia y dominio espiritual, de fuerzas ocultas a las que obedecen ciegamente. Es además muertero, sabio como Orula y justo como Obbatalá. No es solamente el dueño del carretón que conduce los cadáveres al cementerio, sino que ya en sus recintos, es quien realmente recibe a todos los muertos.

Él significa mucho dentro de los orishas, es uno de los mayores, es un santo de fundamento y dentro del orden ritual, ocupa uno de los primeros lugares. En cuanto a la cultura cubana, San Lázaro simboliza el pan de los pobres, la esperanza de los humildes y la sanación de los enfermos.



Patakí de Babalú Ayé


Era Babalú Ayé un hombre justo, sencillo, bondadoso y humilde, aunque poderoso, conocido no sólo por su fortuna, sino por su capacidad para enfrentar la adversidad sin lamentaciones inútiles, por su buena disposición para no dejarse abatir por los contratiempos. Aunque joven aún, era respetado y escuchado en su tierra. Incluso Olofi confiaba en su sensatez y ecuanimidad.
A tal punto, que cuando el envidioso Echu le argumentó que no había ni siquiera un hombre justo en la tierra, Olofi, de inmediato, mencionó a Babalú Ayé como ejemplo, y, para dar mayor peso a sus palabras, retó a Echu a que lo tentara y le hiciera perder su fortuna, para ver si culpaba a alguien por ello. Ni corto ni perezoso, Echu así lo hizo y Babalú Ayé perdió hasta la camisa, pero no maldijo ni renegó.
Echu, indignado, se quejó ante Olofi de que Babalú Ayé conservaba su compostura, porque, a pesar de que no tenía fortuna, tenía salud, y todo hombre sano se siente en condiciones de rehacer su vida. Olofi, confiando siempre en Babalú Ayé, instó a Echu a quitarle también la salud. Y allá fue Echu, a cubrir a su víctima de la más asquerosa lepra, la cual lo convirtió en un apestado entre sus propias gentes. Pero ni así logró oir los ayes o las maldiciones de Babalú Ayé.
Volvio Echu, pues, ante Olofi, quien, molesto por tanta insistente saña, lo increpó diciéndole que no sólo no le daría ni una oportunidad más de perjudicar a un hombre cuya integridad estaba más que probada y a quien lo único que restaba por hacer era privarlo de la vida, sino que su decisión irrevocable era devolverle a Babalú Ayé fortuna y salud como bienes merecidos.
Y he aqui que Babalú Ayé, más poderoso y fuerte que antes, echó a andar por los caminos de su tierra en busca de una mujer con quien establecer una familia y asegurarse descendencia. Pero quiso su mala suerte que se prendara de la hermana del rey de una tierra vecina, a la cual contagió con sus llagas, por no haber esperado el tiempo necesario para su total curación.
Enterado el soberano, desterró a Babalú Ayé, quien se vio de nuevo en el camino, rotos sus sueños de descendencia y triste porque se le condenaba a vagar sin destino fijo.
Cruzó la frontera y fue a parar muy lejos de su tierra, a un hermoso lugar por donde cruzaba un río y crecían enormes y frondosos árboles. Allí se radicó y fue feliz durante algunos años, sin abandonar la esperanza de tener familia.
Y la ocasión llegó con una hermosa mujer de sedosa y brillante piel morena quien, procedente de otras tierras, había arribado allí por azares del destino. Con amor y tenacidad, ella ayudó a Babalú Ayé a formar su familia, a recuperar su prosperidad y a colaborar con la mayor prosperidad de su pueblo adoptivo: su familia mayor.



PATAKÍ DE SAN LÁZARO



En tiempos remotos una terrible epidemia de lepra azotó la tierra dahomeyana. Como hasta ellos había llegado la noticia de un milagroso rey lucumí le enviaron emisarios pidiéndole ayuda urgente, pero éstos nunca regresaron.

Una mañana, ya próximos a sucumbir, los pocos sobrevivientes se encontraban cerca de un pantano cuando apareció un jinete envuelto en una túnica de múltiples colores, cabalgando sobre un magnífico corcel blanco. Al descender de la cabalgadura fue a abrazar a todos los enfermos, hasta que él mismo quedó contagiado. Pero, de inmediato, abrió su bolso y extrajo una escobilla hecha de ramas de coco y un mazo de hierbas. Se las frotó por todo el cuerpo y quedó curado. Luego hizo lo mismo con todos los presentes. Concluido el saneamiento les dijo:

-“Yo soy Babalú-Ayé, señor de la tierra y las enfermedades, el que crea en Dios, por su fe será curado”.

Recibió tantas muestras de gratitud de parte de los dahomeyanos que optó por quedar reinando en esa tierra donde es altamente venerado.


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03/11/2013 10:13
 
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Aggayu





Orisha mayor. Para algunos es el padre de Changó, el gigante de la Osha. El orisha de la tierra seca, deidad del desierto. Patrón de los caminantes y porteadores, protector de los trabajos con fuerza. Es el báculo de Obbatalá. Su temperamento es belicoso y violento. Su refugio es la palma. Es amigo de cargar a los niños y ponérselo sobre sus hombros. Se le reconoce por sus pasos largos y porque alza mucho las piernas al andar. No puede ir a la cabeza de nadie. Sus días son el miércoles y el 16 de cada mes. Su número es el 9 y habla en el diloggún por Osa-meyi. Sincretiza con San Cristóbal en el catolicismo. Sus hijos son hombres violentos y coléricos, físicamente poderosos. La ternura suele desarmarlos. Son amigos de los niños y de las mujeres con apariencia frágil. El dueño de la tierra.
Aggayú y Changó son dos santos en uno; adorando a Changó se adora a Aggayú.
Cuando un hijo de Changó está abatido, le ruega a Aggayú. Éste le traspasó a Changó el derecho de la palma, y los dos imperan en ella. Ambos se visten igual, ambos son reyes, tienen los mismos temperamentos coléricos y belicosos, comen lo mismo; dos santos que no pueden separarse.
La palma tiene un valor religioso tan sagrado como la ceiba: “La ceiba es del Santísimo, la palma de Santa Bárbara.”

Color rojo vino.



Patakí de Aggayú Solá


Aggayú Solá era un gigante poderoso y temido: el dueño del río que se precipitaba desde lo alto. Acostumbraba ayudar a cruzar la corriente, pero siempre exigía que le pagaran.
En cierta ocasión, le hizo el favor a Yemayá (otros informantes dicen que a Ochún), quien no tenía con qué pagarle y tuvo que acostarse con él para contentarlo. De esta unión nació Changó, aunque Aggayú no supo nada. El gigante era tan temido que dejaba la puerta de su casa abierta de par en par; aunque la tenía abarrotada de viandas y frutas, nadie se hubiera atrevido a entrar. Un día, sin embargo, Changó, que es muy fresco, se metió en la casa, se lo comió todo y hasta se acostó a dormir en su propia estera. Cuando Aggayú volvio del campo y vio el espectáculo, sin pensarlo dos veces agarró a Changó y lo tiró dentro de una hoguera que, por supuesto, no ardió. Entonces lo cargó y lo llevó a la orilla del mar para ahogarlo, pero Yemayá apareció y, muy solemne, le hizo saber que era su propio hijo.
No por eso se acabaron los problemas. En cierta ocasión Changó pasó por Orunzale y vio que la gente del pueblo andaba como los zombies. Changó se empeñó en saber quién era el rey del pueblo; tras muchos esfuerzos, descubrió que era Aggayú y fue a verlo. "¿Para qué tú quieres saber quién es el rey?", dijo Aggayú encolerizado. Y Changó le contestó: "Papá, es que este pueblo no puede tener a la cabeza un rey tan fuerte. Todos andan muy mal, no oyen, no contestan, no hablan. No quiero que sigan sufriendo". Fue así cómo se pusieron de acuerdo y, desde entonces, Changó va "a la cabeza de los hombres en lugar de Aggayú, que va a los hombros". Es por eso que los hijos de Aggayú tienen esa perfecta comunión con Changó y dicen: "Changó con oro para Aggayú".


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17/12/2013 11:17
 
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Cultura: Oggi a Cuba si festeggia San Lázaro



Ogni 17 di Dicembre, moltissimi cubani si recano al Santuario di San Lázaro a circa 30 chilometri a sud ovest della capitale cubana, per rendere omaggio e venerare uno dei Santi maggiormente adorati a Cuba.

Nella nostra cultura cattolica viene identificato come San Lázaro. Cuba che affonda la sua radice culturale anche in terra africana, è conoscito anche come Babalú Ayé. Il santuario di San Lázaro fu visitato anche da Papa Giovanni Paolo II nel suo storico viaggio che fece in terra cubana nel gennaio del 1998.

Oggi a Cuba è un giorno dove il sincretismo afro-cubano è alla sua massima espressione e i vari festeggiamenti dei devoti del santo, colorano ogni angolo del paese


El culto a San Lázaro



El culto a San Lázaro es una de las tradiciones más populares en la Isla. Esta adoración a un pobre leproso, amigo de Jesús y resucitado en una parábola bíblica, emerge de las religiones católica y yoruba.

Lázaro es comparado a Babalú Aye, un orisha yoruba, quien era invocado para curar problemas de salud.

El 17 de dicembre, numerosos creyentes viajan desde todas partes del país para visitar el santuario de San Lázaro en un lugar llamado el Rincón, a unos 25 kilómetros al sur de La Habana. Se trata de una pequeña ermita católica ubicada al lado de un hospital para leprosos donde los visitantes hacen sus ofrendas y oraciones por los milagros recibidos especialmente en el campo de la salud, o simplemente para rezar por el bienestar de sus familias.

Mucho se ha escrito en los libros sagrados acerca de los diferentes santos nombrados como Lázaro. Existe un San Lázaro, un obispo que aparece en la Biblia, el amigo de Jesús que vivió en Betania que fue el hermano de María y Martha, quien fuera traida de regreso a la vida por Jesús.

El 21 de junio es el día de fiesta de San Lázaro el leproso. De acuerdo con la Biblia, Jesús volvió a contar la parábola de Lázaro y el hombre rico.

"Había una vez un hombre rico que vestía de púrpura y finos linos y cenaba suntuosamente todos los dias. Cierto día encontró tirado junto a su puerta a un pobre hombre llamado Lázaro, harapiento y mal vestido y quien gustosamente comía las migajas que caían de la mesa del rico. Incluso a este pobre leproso, los perros llegaban hasta él para lamer sus llagas". Este San Lázaro es el patrón del hospital y orden militar de San Lázaro de Jerusalén.

El San Lázaro de Cuba es una mezcla de estos dos santos agregando las cualidades y poderes del dios yoruba Babalú-Aye, el Dios sanador.

El Santuario de San Lázaro permanece abierto todos los días de 8:00 a.m. a 7:00 p.m., mientras los días 17 de cada mes cierra a las 9:00 p.m
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